“Il sogno degli orti di essere giardini” – Paola Roncarati e Licia Vignotto a Giardini Estensi

𝐒𝐚𝐛𝐚𝐭𝐨 𝟒 𝐦𝐚𝐠𝐠𝐢𝐨 𝟐𝟎𝟐𝟒 al 𝐏𝐚𝐫𝐜𝐨 𝐌𝐚𝐬𝐬𝐚𝐫𝐢: “𝐈𝐥 𝐬𝐨𝐠𝐧𝐨 𝐝𝐞𝐠𝐥𝐢 𝐨𝐫𝐭𝐢 𝐝𝐢 𝐞𝐬𝐬𝐞𝐫𝐞 𝐠𝐢𝐚𝐫𝐝𝐢𝐧𝐢”.
Nell’ambito della Manifestazione Giardini Estensi 2024, presso lo “Spazio Incontri” la nostra Presidente Paola Roncarati, insieme a Licia Vignotto, co-founder dell’Associazione “Il Turco”, hanno tenuto una conferenza dal titolo “Il sogno degli orti di essere giardini”.
Tra i valori del paesaggio, in una visione necessariamente aggiornata del concetto, è possibile includere anche la valorizzazione della “campagna che arriva in città”.
L’Hortus, bisogno antico, fin dagli albori della civiltà, può essere oggi un laboratorio territoriale, una forma avanzata di giardinaggio e una nuova suggestione estetica?
Ecco i testi delle relazioni

Paola Roncarati:

Buongiorno a tutte e a tutti gli intervenuti, avete davanti a voi l’esempio di una collaborazione intergenerazionale tra la giovane Associazione Il Turco, che dal 2016 agisce per la valorizzazione del patrimonio storico, architettonico, artistico e botanico della città e del suo territorio (e che promuove le note iniziative di Interno ed Esterno verde, in Regione e fuori Regione), qui rappresentata dalla cofounder dott.ssa Licia Vignotto  e il Garden Club, un’Associazione di volontariato, di maturi amanti della cultura dei fiori,  dei giardini storici, dell’ambiente e del paesaggio che opera sul nostro territorio da 34 anni e rappresenta oggi  150 soci.  La nostra Associazione ha recuperato giardini storici, ha sottratto sagrati all’uso di parcheggi, ha recuperato spazi verdi inariditi, ne continua la cura, ne stimola l’uso ed oggi è impegnata a diffondere conoscenza e rispetto per l’ambiente, promuove giardini ad uso di malati e disabilità e organizza incontri didattici per diffondere sensibilità nelle nuove generazioni. Il Garden Club ha creato, nell’immediata periferia nord della città, un ‘bosco’ dedicato al maestro Claudio Abbado, che ha lungamente operato a Ferrara, amante di musica e natura.

Oggi qui riuniamo le nostre esperienze per parlare di orti urbani nell’auspicio di una loro evoluzione in sempre più gradevoli ‘giardini’,  ricchi di biodiversità, alla ricerca di un fascino che è sempre solo appartenuto alla peculiarità delle ‘belle’ piante dei ‘paradisi in terra’, ma con l’orgoglio, oggi, di saper rispondere a crescenti bisogni – alimentari e salutari- di un’umanità disorientata e affannata, come è per lo più l’attuale.

 Ci stiamo convincendo che deve mutare anche la percezione di bellezza del verde che ci attornia, adeguandoci alle esigenze abitative dell’ XXI secolo – visto che è quasi trascorso un quarto di questo nuovo secolo – e obiettivi esistenziali e culturali debbono essere aggiornati, per non inseguirne miti di un progresso sempre inarrestabilmente positivo, per continuare a rendere garantita la vita sul pianeta anche per un prossimo, accettabile, futuro. Quindi proviamo a superare lo steccato tra piante utili e le piante belle, auspicandone la convivenza senza ‘conflitti’.

Alcuni giorni or sono abbiamo assistito alla lectio magistralis del neurobiologo del mondo vegetale prof. Stefano Mancuso il quale ha ben sottolineato come il cambiamento climatico (il problema più allarmante oggi, molto più della scarsità di acqua), potrebbe rendere difficile la vita umana che ha avuto un passato breve rispetto alle altre vite e non sta gestendo con intelligenza la sopravvivenza di tutti sull’unico pianeta che consente questa opportunità.

Consumiamo risorse e trascuriamo responsabilità: uso il plurale ma non siamo tutti egualmente responsabili dell’esposizione della specie umana ad un simile rischio, si è affermata un’economia che non esita a provocare guerre, a rendere improduttivi i suoli, a far morire di violenza e di disprezzo intere popolazioni inermi.

 Noi, però, vogliamo essere anche fiduciosi, come ci suggerisce Mancuso e raccontarvi una bella storia, la storia degli orti che sognano di essere giardini. Un sogno che si sta trasformando in realtà. Tralascio per problemi di tempo l’origine del nome orto da hortus, luogo recintato da proteggere rispetto a terre incontrollabili e selvagge (il termine giardino è molto più tardo, deriva da gart, una parola di origine indogermanica che significa area da cingere, area protetta). Certo ‘giardino’ è vocabolo molto più affascinante e riguarda sempre una realtà circoscritta, ricreata dalla fantasia umana come ‘bella oasi dalla fatica del vivere’, un’oasi da proteggere da realtà estranee. La prof.ssa Mariella Zappi, che abbiamo ospitato alla Biblioteca Ariostea nella recente primavera, ha scritto una straordinaria storia del giardino: Giardini. L’arte della natura da Babilonia all’ecologia urbana (Carocci, 2023) dettagliando sulla sua origine. Sulle vicende degli orti urbani moderni, il prof. Franco Panzini, noto architetto dei giardini e storico del paesaggio, che sugli spazi del verde urbano ha pubblicato parecchi saggi, ha scritto Coltivare la città. Storia sociale degli orti urbani nel XX secolo.  Ed. Derive/ Approdi, 2021.

L’orto ha sempre protetto specie edibili che hanno affiancato -per motivi alimentari e salutari- le abitazioni dell’uomo. Non c’erano tecniche di conservazione dei prodotti di cui si cibava e quindi erano utili se a portata di mano, da raccogliere in prossimità. Quando le attività degli abitanti di città e di campagna non sono più state in stretta relazione tra loro, in tempi moderni? Quando lo sviluppo dei mezzi di trasporto e il miglioramento delle tecniche di conservazione hanno allontanato i luoghi di produzione dai luoghi di consumo. Ma-sostiene Panzini- il legame tra la città e la campagna è antico e indissolubile e la gente di tutte le generazioni e possibilità economiche ha sempre considerato il prodotto a km zero più accattivante, seducente, sano, identitario e, quindi, più amato e ambito.

Gli orti urbani per lo più sono spazi verdi di proprietà comunale, concessi a cittadini in comodato d’uso spesso aree in zone naturali, ‘inutilizzate’ o degradate per valorizzarle a scopo sociale. Gli orti:

  • migliorano la qualità di vita
  • consentono cibo sano
  • creano maggiore aggregazione sociale
  • evitano il consumo del suolo a favore di spregiudicate speculazioni edilizie.
Per parlarvene mi porto alla fine del XVIII secolo, nel periodo della crisi di certo feudalesimo sopravvissuto, dell’abbandono delle campagne non più concesse come uso civico e dello sviluppo dell’industrializzazione. Masse di persone sempre più impoverite si portarono a vivere nelle città là dove sorgevano industrie e si creavano occasioni di lavoro. Le prime industrie divennero l’obiettivo di masse disperate, che popolarono suburbi ambientalmente immondi, dove la vita era semplicemente disumana. Il romanzo di Charles Dickens Hard times (Tempi difficili) descrive senza ottimistiche contraffazioni la città resa fuligginosa delle ciminiere, la città dei fumi irrespirabili, dell’aria putrida e maleodorante, dei canali dall’acqua nera, del dilagare di malattie mortali. Tali condizioni di vita portavano masse di esseri umani a morire di alcolismo, di tubercolosi, di colera, di malnutrizione, di scarse condizioni igienico-sanitarie. Dickens scrive il romanzo del degrado della vita dell’uomo nell’epoca proto industriale.

Quei disperati ricorsero a coltivazioni povere in piccoli appezzamenti abbandonati e parliamo di coltivazioni non di fiori, ma di cavolfiori, fagioli, pomodori, zucchine, zucche, rape, patate per una precarissima sopravvivenza, con l’esito di associare culturalmente, purtroppo, la coltivazione  di orti ad un’idea di povertà.

 In Francia questi piccoli apprezzamenti vennero spregiativamente denominati les jardins ouvriers  poi jardins familiaux ed attrassero l’attenzione di movimenti filantropici di matrice cattolica che scoprirono in queste  povere iniziative -da incrementare- una duplice opportunità:

  • strappare le masse diseredate dalla fame e dalle malattie con il fruire di luoghi all’aria aperta dove procurarsi cibo gratuito e sano,
  • combattere la piaga dell’alcolismo
  • combattere la tendenza nei diseredati ad esprimere rabbia sociale, con grave danno economico
  • favorire un regime di benessere del corpo che si traduceva anche in benessere della mente ( e produttività sul lavoro…)
Questi movimenti filantropici, fautori della cultura del terrianisme o del ritorno alla terra, si fecero promotori dell’assegnazione di piccoli quadrati di terra da coltivare, per le tante opportunità sociali rilevate che poi, nel XIX secolo, fungevano anche da contrasto all’insorgente ideologia socialista che aveva presa sul proletariato urbano. Tali appezzamenti vennero poi identificati come ‘orti sociali’.

 Ma come veniva ‘esteticamente’ percepita la coltivazione degli ortaggi, in un simile contesto sociale?

Mostro immagini della splendida collezione ottocentesca di Vilmorin di verdure dell’orto come capolavori di ‘ingegneria naturale’. La ditta Vilmorin nacque nel XVIII secolo ad opera di un commerciante di piante, genero di un esperto botanico al servizio del sovrano (Luigi XV). La ditta contribuì alla diffusione di conoscenze botaniche ed agronomiche. Un suo primo catalogo uscì con successo nel 1766 ed elencava piante, fiori, semi e bulbi. Poi procedette a pubblicazioni didattiche periodiche, finché alla metà del XIX secolo (1850) si pubblicò il catalogo -di cui mostro qualche immagine- dove la qualità dei prodotti orticoli si esprimeva attraverso la bellezza delle loro forme. Questa pubblicazione venne dipinta da affermati artisti ed esibiva i prodotti per l’uso degli orti e delle aree agricole anche come eccellenze estetiche. Una vera rivoluzione ‘colturale’. L’ album ebbe un grande successo di pubblico. Ancor oggi, a Parigi, esiste un negozio dei discendenti Vilmorin (Quai de la Mégisserie, 6) dove è possibile acquistare semi, piante e piante orticole di qualità, quasi ad uso di ‘collezionisti’. L’uso degli ‘orti urbani’ però avanzava di pari merito.

In Gran Bretagna storicamente si svilupparono gli ‘Allotmen Garden’ (piccoli appezzamenti assegnati). In questo paese la vicenda degli orti urbani ha la premessa nelle grandi proprietà terriere di famiglie aristocratiche che già dal XVII secolo avevano messo fine agli ‘usi civici’ delle terre da parte delle famiglie rurali, causando tra la popolazione una irrimediabile povertà. Molte le braccia che si resero disponibili per la successiva industrializzazione e la gente si inurbò. I terreni liberi prossimi alle città vennero poi occupati dall’incremento di costruzioni extraurbane. Queste privatizzazioni produssero molti movimenti oppositivi, anche violenti, finché si giunse a concepire  la distribuzioni di parcelle adatte a divenire orti di sopravvivenza, piccoli appezzamenti di terreno ‘assegnati’ fin dalla fine del XVIII secolo per contrastare povertà, criminalità, aggressività. Il problema sanitario divenne apocalittico e si decise finalmente di elargire con provvedimenti legislativi piccole aree ai poveri con modesti affitti. La crescita del fenomeno fu esponenziale, fino a diventare oggi un vero fenomeno di moda, che appassiona i più diversi ceti sociali.

In Germania l’industrializzazione fu tardiva, ma le città si ampliarono comunque con abitazioni poco igieniche nel suburbio, in cui infuriava la tubercolosi. Fu un medico Daniel Gottlob Moritz Schreber (1808-1861) che dirigeva una clinica ortopedica fuori città a Lipsia, il primo a porre attenzione a macchine -a dire il vero un po’ mostruose- per indurre ad esercizi ginnici e raddrizzare gobbe e deformazioni causate dai lavori in fabbrica e nelle miniere. Schreber divenne poi sostenitore dell’uso di orti famigliari come occasione di buona alimentazione e di una migliore salute fisica per gli inurbati. Immaginò strumenti più gentili  da utilizzare all’aria aperta, in orti urbani-palestra. Gli orti sociali si svilupparono rapidamente in tutta la Germania e in particolare nelle regioni minerarie come la Ruhrgebiet . Questi orti erano spesso curati collettivamente, dando vita a piccole comunità che favorivano legami sociali. Il pedagogista tedesco Fröbel (1782-1852), in epoca romantica, pensò ad un’educazione scolastica in mezzo alla natura, essa stessa maestra. Nel XX secolo tali spazi si corredarono poi di casette di legno con pergolato (LAUBE si chiamerà poi il pergolato ad anche l’area dell’orto) ad enfatizzare il legame tra l’individuo, la propria terra, l’aria aperta. Tali iniziative presero impulso anche durante il Terzo Reich. Oggi sono appannaggio non solo dei ceti in difficoltà economica, ma -come ben sappiamo- è diventata moda salutistica coltivare prodotti in un proprio orto (anche sui balconi). Nel tempo la finalità originaria degli orti di produzione degli alimenti si è evoluta anche in funzione → ricreativa → civica  → educativa, per creare futuri cittadini di una città in cui gli orti urbani diventano luoghi di civiltà.

In Italia? L’industrializzazione fu tardiva. Il bisogno di orti urbani si affacciò ai primi anni del XX secolo in un Paese di emigrazione per fame e arretratezza e che poi venne trascinato -come ben sappiamo- nella prima guerra mondiale. Nel nostro Paese gli orti furono quasi subito ‘orti di guerra’,  destinati a vedove e a reduci affamati. Giunse anche dai governi nazionale e locali il consiglio di sacrificare fiori e giardini a favore di coltivazioni utili. Nel 1916 comparve il volume L’orto di famiglia diffuso dalla Cattedra ambulante di agricoltura. E’ simpatico leggerne una sintesi: consigliava di produrre alimenti sostanziosi: fagioli, patate e zucche ad es.  presupponendone l’utilità a favore della  saziante ‘polenta e fasoi’. L’orto andava sempre diviso in aiuole perché vi penetrassero all’interno aria e sole e si consigliava di evitare di concimarlo con lo spurgo dei pozzi neri per non propagare malattie.

Da pochi anni (2007), il Consiglio nazionale degli orti collettivi e familiari (CNJCF) mira a incoraggiare e a promuovere il loro sviluppo, la protezione del patrimonio vegetale e della biodiversità, il giardinaggio ecocompatibile e difende tali obiettivi con le autorità pubbliche e altre istituzioni. Ma siamo ancora lontani dalla convinzione di considerare gli orti come piccole affascinanti realtà dotate di casette e  pergolati dove trascorrere serenamente i fine settimana con la famiglia …

Eppure il mondo degli orti è in movimento… si afferma una diversa sensibilità a proposito di orti non solo privati, ma condivisi. Da alcuni anni attrae la realtà degli ‘orti verticali’.

Nel 2016 è stato creato a Tokyo il più grande orto aziendale (Pasona Urban Farm) con centinaia di piante commestibili ad uso degli impiegati; è un  progetto del 2010 a cura dello studio Kono design di New York. L’Azienda Pasona Group è una multinazionale che si occupa di risorse umane e che ha corredato le pareti verticali di un edificio abbandonato di 9 piani recuperato all’uso, di fiori e frutti edibili, non solo nelle pareti esterne, ma in quelle interne, lungo i corridoi e nelle stanze di lavoro e di ricreazione (auditorium, caffetterie, giardini pensili), mense comprese, dove gli impiegati siedono sotto soffitti di piante di fagioli e davanti a pareti di piante di pomodori. Verdure e riso vengono raccolti e consumati sul posto. Le piante aiutano ad ombreggiare e ad isolare gli interni. Non mancano aiuole di rose per coniugare utilità e bellezza. Orti in cammino.”

 

Licia Vignotto:

“Organizzando il festival Interno Verde ho avuto occasione di conoscere da vicino il verde pubblico e privato di tante città. La manifestazione è nata nel 2016 a Ferrara, con l’obiettivo di aprire eccezionalmente al pubblico, una volta all’anno, i giardini segreti del capoluogo estense. Per lo più spazi familiari, ma non solo: il festival comprende anche spazi afferenti alla pubblica amministrazione, alle associazioni e alle aziende del territorio. Vuole offrire una panoramica quanto più variegata e realistica di ciò che significa oggi “natura in città”. Negli anni l’evento è molto cresciuto e all’associazione Ilturco, che l’ha ideato e curato fin dalla prima edizione, si è affiancata una cooperativa no profit, dedicata specificatamente alla sua gestione. Attualmente Interno Verde si svolge, oltre che a Ferrara, a Mantova, a Parma, a Piacenza e a Vicenza.  In questi meravigliosi capoluoghi di pianura ho incontrato esempi di orti che sognano di diventare giardini, ovvero orti che certamente conservano in via prioritaria una funzione pratica, servono dunque alla produzione alimentare, ma che a questa funzione abbinano altre destinazioni, altri caratteri, altri desideri. Queste inedite prospettive, che esulano dalla mera necessità di portare a casa la sera un cespo di insalata e qualche carota per fare il minestrone, possono riguardare la socialità del quartiere, l’incremento della biodiversità urbana, la sensibilizzazione su temi ambientali, la valorizzazione del patrimonio e la divulgazione storica. E non di rado, seppure in modo non sempre esplicitato, la ricerca del bello e del piacevole allo sguardo si insinua attraverso questi obiettivi eterogenei, permeando e influenzando sensibilmente le scelte organizzative, la disposizione delle essenze, l’allestimento di piccoli e grandi complementi d’arredo. 

Delle varie esperienze incontrate avrei piacere di presentarne due, molto diverse tra loro, entrambe di grande fascino e interesse: la prima riguarda l’Orto Carolingio di Mantova, la seconda la Picasso Food Forest di Parma. 

L’Orto Carolingio di Mantova 

Tra le chiese mantovane Santa Maria del Gradaro è forse la meno appariscente. Sembra arretrare rispetto alla città, aver voglia di stare per conto suo, in compagnia di chi la sa apprezzare. In epoca paleocristiana al suo posto sorgeva la chiesa di Santa Maria in Campo Santo, mentre quella che oggi si può ammirare, con la bella facciata gotica, fu costruita a partire dal 1256. La parola Gradaro indica la caratteristica geologica del terreno, si riconduce alla parola latina cretarium, ovvero cumulo di creta, non a caso si trova a due passi da qui la fabbrica dei mattoni, costruiti con l’argilla del Mincio. In questo luogo calmo e tranquillo è nato nel 2019 un orto davvero originale, coltivato secondo i dettami del Capitulare de villis, voluto da Carlo Magno nel VII secolo per disciplinare le attività rurali e agricole.  

Ideato dall’associazione Mantova Carolingia, in collaborazione con Tea Ambiente, ricorda il passaggio del celebre imperatore e costituisce una tappa del progetto internazionale che valorizza il percorso compiuto da Aquisgrana a Roma in occasione dell’incoronazione. La scelta non è casuale: Carlo Magno è stato il primo a riconoscere la reliquia del Preziosissimo Sangue di Cristo, portata in città nel 36 dal centurione romano San Longino, che proprio al Gradaro si dice sia stato martirizzato. Il soldato, cieco da un occhio, trafisse il costato di Gesù sulla croce per accertarsi che fosse morto: dal cadavere zampillò sangue miracoloso che guarì e fece convertire il militare, che prontamente ne raccolse alcune gocce. I Sacri Vasi che le contengono, sotterrati e ritrovati insieme alle ossa di Longino, sono conservati ed esposti presso la basilica di Sant’Andrea. L’orto medievale racconta questa e tante altre storie. 

Nell’area sono state disposte quattro stanze, secondo uno schema ispirato al giardino dei semplici dell’abbazia svizzera di San Gallo. La prima parte è dedicata alla didattica e ai fiori. Nella seconda sono state allestite le prese, ovvero le aiuole regolari, sopraelevate e contenute da strutture in legno di nocciolo e vimini, ricche di verdure ed essenze, come il finocchietto selvatico, la malva e il prezzemolo. Nella terza parte c’è il pergolato, dove si arrampicano le viti di lambrusco Ruberti, la varietà più antica del territorio, citata anche da Virgilio, e dove di recente sono state piantumate le viti provenienti dal monastero di Weingarten. L’abbazia tedesca è legata a Mantova dalla leggenda di San Longino: parte della reliquia del Preziosissimo Sangue infatti venne presa e portata nella cittadina tedesca dall’imperatore Enrico III. Ulteriori scambi botanici verranno organizzati a livello europeo, per connettere e avvicinare i luoghi dei cammini carolingi. 

In fondo si trova il brolo, con il melo, il ciliegio, il susino, il nespolo di Germania, il fico, l’azzeruolo rosso. Le rose antiche servono ad attirare i parassiti e fare in modo che la frutta venga danneggiata il meno possibile. Chiude lo spazio il viridarium, ovvero la siepe di alloro ed edera. Di recente è stata collocata la vasca per l’irrigazione. Da notare lo spesso muro del Quattrocento, sotto al quale crescono gli ellebori. Sotto alla parete parallela invece si arrampica il rovo delle more e il rosmarino, entrambi piantati dalle suore, che fino agli anni Sessanta coltivavano questo spazio.  

L’area è curata dai volontari dell’associazione Mantova Carolingia, che propone spesso incontri e gite per le scolaresche, apertura straordinarie in collaborazione con i maggiori eventi cittadini. La visita, gratuita, può essere richiesta e prenotata anche da singoli e gruppi. 

La Picasso Food Forest di Parma 

Avrebbe mai immaginato Pablo Picasso che, oltre a musei e istituzioni culturali, sarebbe stata inaugurata a suo nome una foresta alimentare? Questa originale area verde di 4.500 metri quadri in realtà prende il nome dalla strada che la costeggia, ma tanti e tali sono i colori che la caratterizzano, dal verde degli aceri, all’arancio squillante dell’olivello, al giallo del corniolo, che l’intitolazione al celebre pittore spagnolo sicuramente non sembra fuori luogo. Il progetto è stato avviato nel 2012 da un gruppo informale di residenti ed è uno dei primi esempi italiani di foresta alimentare urbana, improntata ai principi della sostenibilità e dell’agroecologia. Al suo interno crescono oltre 300 tipi di piante ma l’impianto è stato ideato affinché si possa mantenere facilmente, con pochissimi input da parte dell’uomo, senza bisogno di fertilizzanti o di antiparassitari. Si chiama foresta non per nulla: si è scelto questo nome perché la sua organizzazione si ispira a quella del bosco immaturo. 

Il bosco maturo ha alberi decisamente alti, con una chioma fitta, sotto i quali si sviluppa un’ombra densa. Il bosco immaturo invece ha alberi di varie dimensioni, sotto ai quali si alternano zone d’ombra e zone di luce, che permettono la crescita si diverse nicchie ecologiche. L’ambiente è stato immaginato in sette livelli: il primo è quello degli alberi alti, comprende gli alberi già presenti nel parco pubblico prima dell’avvio del progetto, soprattutto aceri. Il secondo livello è quello degli alberi di media altezza, ovvero degli alberi da frutto: chi cerca una buona merenda può contare su meli, peri, ciliegi e pruni, noci e noccioli. Non manca il curioso biricoccolo, ovvero un ibrido tra susino e albicocco, i cui frutti si racconta fossero tra i preferiti della duchessa Maria Luigia. Il terzo livello è quello degli arbusti, dove si trovano per esempio i ribes, l’uva spina, i lamponi e le more. Il quarto livello è quello delle erbe, dove si coltivano ortaggi come i carciofi e gli asparagi, le fave, i ceci, i piselli, le bietole e i girasoli. Il quinto livello è la copertura del suolo, qui crescono per esempio le fragole. Il sesto livello è sotterraneo, con tuberi e bulbi commestibili, come agli, cipolle, patate, rafano e topinambur. Il settimo livello tiene assieme gli altri, infatti è quello delle piante rampicanti: luppolo, vite, kiwi, cetrioli, zucche e fagioli.  

La biodiversità della popolazione animale – insetti soprattutto ma non solo, basti pensare che recentemente qui sono stati censiti oltre 50 uccelli diversi – fa sì che prede e predatori siano bilanciati. Le essenze azotofissatrici, come le leguminose, nutrono il terreno in modo naturale.  

C’è evidentemente un approfondito studio alla base di questo ambiente, ma più che sulla teoria la Picasso Food Forest cresce grazie alla sperimentazione quotidiana. Camminando si incontrano le postazioni didattiche che spiegano in modo semplice i processi avviati, dall’albergo per i bombi e le api terricole alla catasta dei tronchi morti, fondamentale sia per la riproduzione dei funghi che per l’insediamento di alcuni coleotteri diventati purtroppo molto rari. Dalle casette per i pipistrelli alla compostiera dei lombrichi, dove i vicini – dotati di apposita chiave – possono depositare i rifiuti umidi di origine vegetale. I sentieri sono tracciati dai passi dei visitatori, l’erba attorno resta alta e selvatica. «Non è una questione di pigrizia, viene lasciata crescere per favorire la varietà ecologica» spiega Francesca, da sempre tra i promotori dell’iniziativa. «Culturalmente associamo l’erba alta alle aiuole abbandonate e quindi ai rifiuti, quindi la interpretiamo in modo negativo. Dovremmo imparare a rivalutarla: in realtà non è brutta, ed è molto utile».  

Tra gli ultimi progetti realizzati, il giardino delle farfalle, ovviamente composto dalle piante preferite dai bruchi, e il piccolo laghetto, dove sono state collocate 35 specie diverse di piante acquatiche. In un solo anno, da quando è stata realizzata la zona umida, sono state censite 32 specie di animali mai viste prima nell’area.  

Tra sogni e incubi, una via di mezzo? 

Sempre più orti anche in Italia sognano di diventare e giardini, vengono dunque immaginati come luoghi belli da guardare e belli da vivere, luoghi di incontro, di svago e di apprendimento. Dall’altra parte, specularmente, ho notato che sempre più giardini soffrono l’incubo di diventare orti. Di recente mi è capitato di tenere a Mantova, per la rassegna Giardini di Cultura, un talk dedicato alle strategie che si possono adottare per avere giardini e balconi in grado di adattarsi al cambiamento climatico. Le ultime estati sono state decisamente siccitose, i fortunali violenti sono diventati più frequenti: chi ha un giardino sa che ciò che funziona prima non sempre funziona anche oggi, o meglio: funziona con più difficoltà. Certo chi dovesse possedere un’area già definita e consolidata dovrebbe “solo” impegnarsi per mantenerla al meglio, ma chi è alle prese con un nuovo spazio oppure con piccole ri-organizzazioni, sicuramente non sbaglia se intraprende scelte più consapevoli. Ci sono alberi più o meno flessibili al vento, ci sono piante che necessitano di più o meno acqua, o che resistono senza particolari afflizioni a prolungate e faticose giornate di sole. Il giardino del futuro non potrà non tenere conto di questi fattori, come non potrà non tenere conto del contributo che potrebbe / dovrebbe offrire alla biodiversità del territorio.  

Per questo si iniziano a diffondere gli sfalci differenziati dei prati, oppure a suggerire banalmente sfalci meno frequenti. Per questo si consigliano le siepi multi specie, dove si alternano sempre verdi ed essenze autoctone che d’inverno perdono le foglie e possono ospitare i nidi, come per esempio il melograno. Durante il talk questi consigli venivano accolti e commentati dal pubblico con comprensibile diffidenza: «la siepe nei mesi freddi se non è piena e verde diventa brutta, il prato con l’erba alta trasmette una sensazione di trascuratezza».  

Quindi da un lato abbiamo gli orti, sempre più belli e accoglienti, che si avvicinano esteticamente e funzionalmente ai giardini. Dall’altro lato abbiamo i giardini che temono di diventare troppo selvatici e rustici, più simili agli orti. Entrambi questi movimenti presuppongono un cambio di mentalità, un salto non facile ma necessario, e non è detto che non ci si possa serenamente incontrare a metà strada.”

 

 

Garden Club Ferrara